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Approfondimenti di storia della letteratura latina: Tito Livio.
Analisi, significato e valore del metodo storico
e dell’opera di Tito Livio
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Tito Livio è senza dubbio il più importante storico latino, perché al suo nome è legato a quella che è considerata la principale opera storica del mondo romano: “La storia di Roma” “Ab urbe condita”, vale a dire a partire dalla sua fondazione, in 142 libri di cui, però, ci sono rimasti solo 35. Molteplici sono le cause della dispersione di questa così vasta opera , pubblicata con la suddivisione in decadi e pentadi, a cominciare dalla sua stessa mole che impedì che tutti i gruppi di dieci e cinque libri avessero un soddisfacente numero di copie fino alla caduta dell’Impero romano.
E’ facile immaginare lo sgomento dei copisti dinanzi a tanta mole di materiale. D’altra parte poi col mutare delle condizioni della società romana nei vari secoli dell’Impero, subentrò per motivi retorici alla necessità di una cultura condotta in profondità il mal vezzo di un sapere in superficie. Tale artificiosa erudizione fece sì che alle opere originali fossero preferite i compendi e le miscellanee. A questa prassi non sfuggì l’opera di Livio alla cui lettura diretta fu anteposta e prescelta quella dei brevi riassunti fatti dai suoi vari compendiatori, di per sé meno costosi e più in linea con le superficiali esigenze culturali dei tempi. Si aggiunga, inoltre, l’ostilità di Caligola, quella di papa Gregorio Magno, che ne ordinarono la distruzione, per capire come forse la parte migliore della Storia liviana andasse perduta. E se è vero che ancora nel VI secolo d.C. esistevano esemplari dell’intera opera, a partire dall’VIII cominciò la perdita delle varie parti, affievolendosene l’interesse, in parte per le particolari condizioni della civiltà latina nell’Alto Medioevo, quando il patrimonio della cultura classica era solo ad appannaggio di pochi, e in parte per le frequenti scorribande dei barbari contro le abbazie più famose, deposito prezioso del sapere, per cui molte opere greche e latine andarono bruciate e disperse.
E’ da presumere che Livio pubblicasse la sua Storia mano a mano che la componeva come si può arguire dai proemi premessi in alcuni libri, inutili se non destinati ad un pubblico di lettori, e che, prima della sua morte, essa fosse stata interamente pubblicata, diversamente, né Augusto avrebbe potuto chiamare lo storico “pompeiano”, né infine lo stesso Livio acquistare quella fama fino al punto che, se diamo retta a Plinio il Giovane, ci fu chi da Cadice si recò a Roma a bella posta per conoscerlo di persona. Una tale fama gli dovette quindi senza dubbio derivare, non essendo sufficienti a procuragliela le poche opere filosofiche e retoriche scritte, dalla Storia che circolava di mano in mano e per mole, eleganza e perfezione stilistica, era tale da superare quanto era stato prodotto fin ad allora in campo storiografico.
Infatti, a detta di Cicerone, all’epoca della composizione dell’opera liviana, la letteratura latina mancava della sua vera storia. Vale a dire non erano servite colmare la lacuna le cronache degli annalisti, Fabio Pittore, Cincio Alimento, Postumio Albino ecc., e neppure le pregevoli monografie di Cornelio Nipote, Cesare, Sallustio, perché, in effetti, Roma, giunta all’apice della sua grandezza, non aveva ancora trovato chi di essa fosse il fedele interprete. Il poema virgiliano aveva fatto intravedere, attraverso il quadro storico delle nobili figure della storia di Roma, il cammino di un popolo che per predestinazione divina era già assurto a dominatore del mondo. Livio, infatti, si accingeva scrivere la sua Storia con la visione di una Roma “invicta et aeterna” la quale trovava finalmente chi ne sapesse tracciare con intima convinzione il glorioso cammino.
L’intento dello storico così appare chiaro: egli scrive non solo perché “Historia est magistra”, ma perché il mondo romano avesse piena consapevolezza della missione affidata dagli dei alla Roma di Augusto. E questa convinzione di una Roma, città fatale, impronta l’opera di Livio e fa sì che egli sia lontano dalla concezione storica di un Tucidide o di un Polibio, egli può essere ascritto alla serie degli storici della trascendenza, vale a dire, di quelli che sono sempre spinti a collocare il centro delle umane vicende al di là dei limiti terreni. Livio sa che tanta parte delle fortune di Roma poggia sull’aiuto degli dei, oltre che sul valore degli uomini. Perciò si dimostra sinceramente e profondamente religioso, non in quanto naturalmente presti cieca fede a tutto il complesso delle credenze romane, ma in quanto è veramente convinto che i doveri religiosi e il rispetto degli dei, che reggono il mondo, sono necessari sia singoli individui che alla grandezza dei popoli.
D’altra parte egli non compone la sua Storia collegandole ad un principio e metodo filosofico o politico come Tucidide o Polibio, né ad uno prettamente scientifico, ma principalmente ad un rigore etico. Cicerone a buon diritto aveva definito la storia “opus oratorium maxime”, opera soprattutto oratoria. Del resto il mondo romano in tal senso concepiva la storiografia, vale a dire come trasfusione nell’animo dei lettori delle proprie convinzioni religiose, politiche, sociali, morali con gli stessi mezzi di cui può servirsi un oratore per portare l’uditorio a scorgere la verità là dove, in tutta coscienza, la scorge lui stesso. E la verità di Livio è soprattutto morale.
Ma la storia per il mondo antico è poi sopra ogni cosa opera d’arte. Non a caso dirà Quintiliano:”la storia è molto affine alla poesia ed è in un certo qual modo una poesia in prosa”. In tal senso la Storia di Livio è un autentico capolavoro, ed ai limiti dello storico subentrano i pregi dell’artista. “La sua opera procede con la maestosa bellezza e scorrevolezza di uno stile che è nello stesso tempo eloquenza e poesia” (Marchesi). Livio possiede, infatti, finezza psicologica e capacità poetica di rappresentazione. Singolare valore hanno poi i discorsi coi quali Livio, come già altri storici, traduce le idee e i sentimenti dei personaggi che li pronunziano, calando in essi la sua consumata arte oratoria e facendo contemporaneamente trasparire la sua vena artistica.
In questo contesto è facile fare ammenda a Livio di quelli che sono i suoi innegabili errori storici, della fallibilità e inconsistenza del suo metodo, anche perché il rigore di un metodo storico prettamente scientifico è una concezione e conquista dell’età moderna che pone inoltre accanto alla storia tutta una serie di discipline ausiliarie che naturalmente gli antichi o ebbero imperfette o ignorarono completamente. E poi, “malgrado il suo religioso rispetto per l’antichità, Livio sa distinguere ciò che favoloso da ciò che è storico” (Marchesi).E se nella sua opera compaiono incertezze e contraddizioni ciò è dovuto alla sua stessa mole. Livio sa che le fonti antiche sono avvolte dall’oscurità, ma anche che lui può “in rebus certius aliquid afferre”, accertare meglio la verità dei fatti, e ciò basterebbe ad avvalorare la sua serietà di storico, ma soprattutto egli vuole offrire esempi di virtù morali e civili ai contemporanei, rifuggendo dallo spettacolo triste della cupidigia e della lussuria, sorretto dalla speranza che tali esempi servano di sprono per il rinnovamento del costume. Cosa che lo indusse ad essere aspro contro le debolezze umane in generale e le colpe dei Romani in particolare, indirizzando il suo biasimo più contro la colpa in sé, per le sue dannose conseguenze, che contro gli individui che la commettono. Ci troviamo cioè in definitiva di fronte a quello scopo etico, che per lui è al primo posto, e a cui va affiancata la sua abilità di scrittore e di narratore donde acquista valore la sua opera, perché più che mai forse per Tito Livio vale quanto scriveva Ippolito Taine: “nella storia vi è il critico che esamina i fatti, l’erudito che li raccoglie, il filosofo che li spiega: ma tutti costoro restano nascosti dietro il poeta che racconta. Onde per essere storico conviene essere grande scrittore”.